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Benvenuto nella sezione “Memorie Digit@li”.

Questa area presenta una selezione di post e contenuti inseriti da Giuseppe Casarrubea nel suo blog.

L’intero contenuto è disponibile per la consultazione presso la sede dell’Archivio.

 

  • PERSONAGGI

Pubblicato il 13 maggio 2015       di Giuseppe Casarrubea

Gli uomini hanno una caratteristica di cui durante tutta la loro vita non si accorgono. Da giovani o da persone più mature amano borse, borsellini, borsoni, borselli. Da anziani, però, si riducono con la borsa delle loro urine in mano.  E’ l’impatto con la malattia. A prescindere da tale caratteristica, comunque, esiste un popolo di ammalati che la società considera ai propri margini perché gli anziani sono considerati, anche dallo Stato, improduttivi, pensionati, da mandare in “quiescenza”. In realtà, però, l’ospedale è un osservatorio importante dell’andamento della società, e non solo in riferimento agli anziani o a qualche tipologia patologica. Se ci si sta dentro qualche giorno si scoprono realtà imprevedibili. Ad esempio personaggi che sembrano usciti da un mondo reale impensabile. Solo l’incontro con questo mondo ti consente di capire meglio gli uomini. In ospedale essi abbandonano le loro maschere tradizionali e sono solo se stessi, esposti come esseri senza protezione. A differenza della variegata popolazione scolastica, quella che abita gli ospedali non mistifica. Dentro ci sono i personaggi più vari. Artigiani, disoccupati, pensionati, impiegati e via di seguito. Ciascuno di loro è portatore di una storia, che si esprime attraverso la patologia: punto nodale di una lunga cronologia di comportamenti. Così c’è anche il fontaniere al quale è stato tolto un tumore perché aveva respirato per anni polveri di eternit. Un tipo bizzarro che millanta di aver fatto centinaia di chilometri al giorno con la bicicletta, di avere viaggiato in tutto il mondo e che suo padre percorreva a piedi da Palermo a Piana degli Albanesi come fosse una passeggiata, e che lui, grazie alle bombolette di aerosol che i medici non hanno voluto procurargli, ritenendole nocive, era uno dei più grandi atleti del momento. La sua seconda vita l’ha vissuta in Belgio dove ha due figli. Gli altri due in Italia. E’ alto, portatore di una tradizione religiosa antica che richiama il Natale e altre feste. Parla sempre in dialetto, con tono di voce alto e ce l’ha con i medici, con gli stupidi e le persone impreparate. A suo modo di vedere lui ne sa molto di più. E così si potrebbe continuare con tanti altri personaggi, alcuni assai pittoreschi altri meno, che popolano giornalmente le corsie e le stanze degli ospedali.

In questo mondo in primo piano ci sono i medici e gli infermieri che qui, alla U.O. di Medicina Clinica e Respiratoria sono giovani e molto preparati. Essi hanno saputo costruire, nel tempo, un amichevole rapporto con gli ammalati, rendendoli partecipi del piano terapeutico loro riservato. Dietro questo livello primario compaiono sulla ribalta un numero notevole di volontari, apprendisti, tirocinanti, studenti, crocerossine e, in ultimo, gli erogatori di alcuni servizi come quello gastronomico.

Ignorare questa realtà della vita quotidiana è da folli perché questo mondo è ricco di insegnamenti e ci aiuta a capire che non tutto nella società e nelle istituzioni è da buttare come spesso siamo soliti fare senza cognizione di causa.

 

Giuseppe Casarrubea

 

  • FESTA DEL LAVORO

Pubblicato il 6 maggio 2015         di Giuseppe Casarrubea

Non ho mai avuto grandi passioni per le manifestazioni celebrative. Ogni anno, per lo più, sono stato a Portella della Ginestra, tra i sassi di Barbato, per raccogliermi un attimo, e un anno sono stato in una miniera di rame in Svezia, presso Borlange. Ma, quest’anno, sono stato, per condizioni di salute, al Policlinico Universitario “P. Giaccone”, presso l’unità operativa di Malattie Cliniche e Respiratorie.  Qui il primo maggio, l’ho celebrato ammalato tra ammalati. Ho avuto, però, straordinari personaggi nella mia camera, con cui ho fatto amicizia. Del resto, tutto l’ambiente della unità operativa ha sviluppato nel tempo un senso di solidarietà e di scambio che per un paziente è prezioso.

I parenti intimi danno una mano per i loro cari e contribuiscono, per la loro parte, al buon andamento generale. Al mio arrivo, nella stanza dei degenti c’erano, in ordine, Jachinu, Bjkmar e, infine, Giovanni.

Jachinu è siciliano, ha famiglia a Milano, è08 separato, tre figli con la prima moglie, due figli con una nuova compagna, una bella casa nella capitale lombarda, dove vive la prima moglie con la prole e qualche vecchia BMW. Credo che non conosca l’uso corretto dei cellulari, perché, tiene sempre il viva voce inserito, non cogliendo la circostanza che tutti i degenti sentono le sue “private” conversazioni, per cui, necessariamente, accadono effetti spiacevoli. Racconta minchiate sulle telefonate appena concluse, non rendendosi conto che tutti hanno, comunque, sentito. Si da arie da don Giovanni e nonostante sia reduce da una Broncopolmonite (con la B maiuscola), ogni tanto esce per i viali alberati con una bella sigaretta. Conosce la storia di tutti i degenti della stanza, nonché infermieri, medici e chissà quanti altri. Osserva tutto, memorizza, valuta e se qualcuno non gli garba potrebbe avere qualche problema. E’ iperattivo, entra ed esce dalla camera con frequenza e si reca giù nei viali a fare certe sue curiose passeggiate. E’ una gran brava persona.

Il secondo in camera è Bjkmar, il Pakistano. Lo dico per approssimazione perché potrebbe essere anche indiano. E lui non parla una sola sillaba in italiano. Si trova in Italia come emigrato clandestino senza documenti, qui arrivato forse perché ha un fratello, un bravo ragazzo, che lavora presso una dottoressa, al servizio della sua azienda. Bjkmar preferisce dormire sotto i ponti, nei posti più sbagliati, campando non si sa come. Ha girato vari ospedali e infine è approdato qui dopo essere “caduto” da una finestra di un secondo piano, forse perché ubriaco. S’è fratturato parecchie ossa ed ha avuto lesioni a vari organi interni. Ha una caratteristica particolare: mangia in continuazione, di notte e di giorno. Accetta dai compagni di stanza qualunque cosa gli venga offerta, non lasciandone traccia. Non guarda in faccia nessuno ed è pieno di cerotti e medicazioni su gran parte dell’addome e del torace. Solo Dio sa come riesca a sopravvivere alla enormità di cibo che ingurgita felicemente. Sembra una figura mitologica. Si è ripreso. Avrebbe gradito rimanere in camera con noi, ma l’altro giorno sono arrivati tre poliziotti in divisa e la pistola al fianco e lui, persona molto serena e direi serafica, nonostante gli innumerevoli acciacchi e traumi che lo affliggono, ha detto, facendosi in qualche modo capire anche con l’aiuto di Jachinu (che gli si è molto affezionato), che ha con sè solo una fotocopia del passaporto smarrito. Devo dire che le forze dell’ordine sono state molto comprensive con questo “ultimo della terra”. Hanno cercato l’indirizzo del fratello che, alla fine, lo ha preso in carico. Il suo rapporto con l’ospedale non è cessato perché è ritornato a trovare i suoi vecchi amici.

Pietro è stato ricoverato al posto di Bjkmar poche ore dopo. E’ un enologo ed è arrivato in camera mezzo morto, con l’ossigeno. Ho temuto molto per lui. Ma dopo tre giorni ha cominciato a parlare, a stare seduto nel letto, a rispondere ottimamente alla terapia prevista per lui, affetto da una broncopolmonite, come Jachinu. Io me ne ricorderò finché campo perché la sua vita è stata salvata da un macchinario che tutte le notti ripeteva: Ti-ti-ti-ti/ti-ti//Ti-ti-ti-ti/ti-ti. E poi dicono che le macchine non parlano.

Giovanni è il quarto in camera, vecchio contadino di Lercara Friddi, operato per non so quante e quali malattie. Ha una memoria viva dei lavori agricoli che si conducevano nella Sicilia interna. Una Sicilia che solo l’assenza della ragione ha potuto cancellare. Ma non dalla carne, dai segni, dalle fatiche, visibili sul volto e sulle mani di chi ha lavorato una vita per consegnarci condizioni migliori di civiltà e di sviluppo. Tra i vari fatti antropologici di cui è depositario, sono riuscito a recuperare queste poche righe.

 

“Maronna ri Girgenti, nescinu li mula e trasinu i trarenti, Maronna ri Tagghiavia, aiuta a tia, a mia e a tutta a cumpagnia Maronna ru Sacramentu nescinu li mula e trasi lu ventu”

(Giovanni, 90 anni, antica filastrocca dei tempi della mietitura di Lercara Friddi)

 

  • PARTINICO E IL SUO TERRITORIO

Pubblicato il 31 luglio 2008           di Giuseppe Casarrubea

La storia del territorio, i fatti che lo interessarono nell’evolversi dei secoli, dai primi insediamenti nella Sicilia occidentale alla caduta dell’Impero romano, si perdono nella notte buia dei tempi.

Le testimonianze archeologiche sono scarse; i documenti scritti quasi inesistenti. Per i secoli successivi il territorio sembra contraddistinto da una storia marginale, interna, però, ai grandi processi che interessarono l’Europa lungo il corso di quasi 1200 anni.

Questa storia tuttavia può essere meglio conosciuta attraverso un preciso scavo, come in una sorta di trivellazione in un punto. Esattamente come accade in un’indagine geologica, o nell’ osservazione di una parte minuscola di realtà attraverso il microscopio: gli strati sovrapposti o gli ingrandimenti ci suggeriscono fenomeni più complessivi, sottoposti a regole generali. E’ quella che possiamo chiamare microstoria. Essa si contrappone alla macrostoria (che studia i grandi avvenimenti), non rimuove uomini e cose particolari e ha il pregio di fare emergere tutto quello che è sommerso. Studiare la microstoria ha valore se la si raffronta con gli eventi e le tendenze della macrostoria. E in effetti c’è una connessione tra questi fenomeni locali in epoca preindustriale e quello che si riscontra in tutta l’Europa. Studiare Partinico è come studiare i comportamenti degli uomini in una certa epoca e in una vasta area del mondo che ci assomiglia. Fare storia è cercare di scavare come attraverso una trivella in un punto e tirar fuori il campione delle cose che servono per capire la stratigrafia dei fatti umani nel tempo. I dati che abbiamo hanno validità scientifica per cui attraverso i particolari si costruisce la storia generale, che è universale almeno per quelle civiltà per le quali quei fenomeni si verificano in situazioni analoghe: mondo agricolo, mondo pastorale, civiltà con altre caratteristiche. La società pastorale non era molto sviluppata come invece sarà quella legata all’economia boschiva, alla foresta, ai mondi sognati dal popolo. Perché il bosco fu una grande risorsa per molti nascenti comuni in età tardomedievale o rinascientale; fu principio di lotte e di conquiste sociali ma fu anche la fine di un’era ancestrale mitica e favolosa.

 

Gli albori

Fino all’epoca arabo-normanna le tracce di nuclei abitativi sono assai labili e si riferiscono ad alcuni resti di epoca greca e romana. Gli Arabi s’insediarono su tutta la valle lungo il corso del fiume Jato estendendo il loro dominio. La città che sorgeva sull’omonimo monte fu la loro roccaforte.

 

Città romana di Jato

Con i Normanni fu introdotto l’istituto feudale che anche gli Aragonesi accettarono. Con questi dominatori la storia del territorio cominciò a prendere corpo. L’avvio fu segnato in modo certo da Federico II d’Aragona. All’inizio del 1300 egli concesse in dono ai monaci cistercensi (spagnoli anche loro) 5500 salme di terreno: una sterminata estensione di bosco. Per oltre un secolo, i monaci lo sfruttarono attivando un’economia boschiva fiorente. Il bosco è infatti una grande risorsa naturale. Vi si può ricavare tutto: la legna degli alberi, usata come combustibile ma anche per varie manifatture, il miele delle api, i frutti di bosco, molte erbe commestibili e terapeutiche, la seta da baco. Intorno al 1600 l’economia boschiva entrò in crisi e i monaci pensarono bene di ricorrere alle colture intensive, l’esatto opposto di un’economia tipicamente feudale.

Il territorio era talmente vasto che non poteva essere gestito dai soli monaci. Essi erano rappresentati dalla grande aristocrazia ecclesiastica spagnola, per lo più distante e assenteista. Tuttavia furono loro a introdurre una nuova concezione d’impresa: il contratto di enfiteusi. Inizialmente questo contratto ebbe la forma di un’ aggiudicazione (pagata in onze, tarì e grani, le monete del tempo) che i monaci decisero di affidare ai migliori offerenti. Bisognava che costoro rispondessero ai bandi pubblici, fatti affiggere nelle principali chiese di Palermo, o di altre importanti città siciliane, formulando le loro offerte. Il contratto di enfiteusi è la base su cui si regge il sistema proprietario e produttivo del nostro territorio durante il corso di molti secoli. Esso diede una spinta all’economia e fu il motore della trasformazione dell’originario latifondo, in virtù della politica amministrativa dei Cistercensi. Così, già a partire dal ‘400, grazie alle molte opportunità di lavoro che derivavano dalle continue concessioni di terra, significative correnti immigratorie arrivarono da Alcamo, Carini, Palermo e da moltissimi comuni siciliani (specialmente dai comuni baronali dove maggiore era la pressione dello sfruttamento dei signorotti locali).

 

Enfiteuti e gabelloti

Nacquero così gli enfiteuti: una classe sociale perfettamente compatibile con le rendite parassitarie. L’enfiteuta era una figura intermediaria tra la rendita, l’impresa e il lavoro, tra i proprietari, i processi di trasformazione agraria e la manodopera. La sua caratteristica principale stava nella disponibilità di denaro da un lato e nella capacità d’investimento dall’altro. Egli aveva interesse all’aggiudicazione in quanto sollecitato da una certa intraprendenza soggettiva. Si distingueva dal gabelloto in quanto il contratto enfiteutico stipulato dai monaci aveva la specifica forma di ‘quarta generatione o nominatione’, cioè di una concessione di lungo periodo che poteva consentire interventi strutturali sulla proprietà. Un enfiteuta, in sostanza, che avesse ricevuto delle porzioni di bosco o di terreno già coltivato, avrebbe potuto programmare – fatto salvo il pagamento del canone annuo pattuito- progetti di radicale riconversione colturale. Questo dato non secondario faceva la differenza con la vicina figura del gabelloto.

Il gabelloto non rischiava nulla, non lavorava, era l’espressione di un ceto totalmente parassitario. Non era interessato alle trasformazioni, ma a mediare tra ‘gli utili dominii’ e la manodopera per trarne il massimo vantaggio personale. Questa figura acquisì nel tempo un ruolo sempre più importante. Tristemente famoso fu don Fabrizio di Trapani, indicato dalla gente del tempo arrogante e pericoloso. Con una smisurata quantità di delitti sulle spalle, teneva le masse dei contadini al giogo del suo potere violento e sanguinario, appropriandosi di tutte le scarse risorse di cui essi disponevano. In punto di morte si pentì delle sue malefatte e provò a conquistarsi anche i favori del Creatore, destinando una parte delle sue ricchezze alla costruzione (1619) di una Chiesa nel largo Gambacorta di Partinico (oggi Villa Margherita), con l’obbligo per i preti di celebrare messa tutti i giorni per indulgenza dei suoi peccati.

Una fornace per la terracotta. La costa era piena di fornaci tanto da dare origine al toponimo “Ciammarita”

Una fornace per la terracotta. La costa era piena di fornaci tanto da dare origine al toponimo “Ciammarita”

 

Padrini e mammane

Per risalire al primo nucleo abitativo si fa riferimento alla serie completa dei dati anagrafici depositati nella prima parrocchia, che dalla sua nascita, nel 1576, assolse l’obbligo di certificare tutte le nascite, i matrimoni, le morti di ogni nucleo familiare, secondo i dettami del Concilio di Trento. Sono i libri baptizatorum, defunctorum conijugatorum che ci pervengono quasi integri da quell’anno fino all’Ottocento.

L’analisi attenta di questi libri ci consente di avere un quadro assai obiettivo delle dinamiche demografiche messe in atto dai processi di trasformazione produttiva del territorio e dei loro intrecci con le ricorrenti crisi sociali dovute alle annate di epidemia e di carestia.[2]

Al tempo del passaggio di Carlo V, intorno alla metà del ‘500, Partinico – ci dice Vito Amico- contava una settantina di case. Considerando che una casa corrispondeva a un fuoco (probabilmente un focolare attorno al quale si riscaldava un’intera famiglia) si può ritenere che il paese non contasse più di 350 abitanti.

Attorno alla parrocchia nacquero i vari nuclei abitativi e presero forma alcune figure sociali come i padrini e le mammane. I padrini ebbero un ruolo sociale determinante: battezzavano i neonati, ma erano anche in grado di esercitare protezioni e aiuti per la sopravvivenza, in un’epoca in cui carestie, epidemie e congiunture economiche falcidiavano popolazioni intere, abbassando la composizione media dei nuclei familiari. Il padrino era perciò una persona benestante e influente non solo quando nasceva un bambino, ma anche durante tutta l’esistenza delle varie famiglie. Non sappiamo se veniva scelto da queste ultime o, viceversa, era il padrino a sceglierle. Altra figura di rilievo era la levatrice, più comunemente conosciuta come mammana. Era lei che si prendeva cura della partoriente e del neonato assistendoli. Anche la mammana, per le sue funzioni, svolgeva un ruolo socialmente influente: era essa stessa madrina, nei casi dei frequenti pericoli di morte dei neonati; riceveva stima e fiducia dalle famiglie per la sua attività che di fatto era anche di tipo medico; era insomma una delle autorità della comunità.

 

Terre e torri

Col progressivo disboscamento il territorio cominciò ad assumere l’aspetto di una vastissima pianura circondata da torri, per lo più incluse in un sistema di terre fortificate. Queste erano composte da una torre, da case contadine e mura di recinzione, oltre ai magazzini dove venivano riposti i prodotti agricoli. La grande piana arrivava fino a Trappeto, comprendeva Bosco Falconeria, le terre di Albachiara, di cui divennero enfiteuti i marchesi di Villabianca, Ramo (dove trascorreva il tempo estivo il barone Francesco Ramo che, per sua comodità, fece costruire il sontuoso palazzo ora in fase di restauro), contrada Cicala, e molte altre. Alcune di queste contrade presero il nome dai vari personaggi che ebbero in enfiteusi o in gabella le terre; altre presero invece il nome dalle attività che vi si svolsero: di milizie subordinate alle decisioni reali (piano del Re), oppure di lavorazione della terracotta ( piano dell’Inferno). Anche la contrada della Madonna del Ponte prese il nome del legittimo tenutario di quelle proprietà: la famiglia dei Ponte d’Angelo. La costa da San Cataldo a Tappeto era ricca di fornaci per la cottura dell’argilla lavorata e probabilmente a questa attività si lega ancora oggi il toponimo della Ciammarita.

Nel 1600 Partinico produceva vino, olio, seta da baco, canapa e lino. Aveva anche due cartiere che sfruttavano l’economia boschiva. La sua grande piana arrivava fino a Trappeto dove veniva coltivata la cannamela, la canna da zucchero che veniva macinata in quella zona con una specie di torchio chiamato appunto trappeto.

 

Miseria e brigantaggio

Nonostante le potenzialità del territorio, la situazione socio-economica della popolazione era disperata: i contadini venivano sfruttati, il grano che si produceva nell’entroterra e nei comuni circostanti, veniva nascosto dai baroni locali allo scopo di alzare i prezzi; i sacerdoti intercedevano presso i baroni di Palermo – che erano poi gli stessi baroni locali- per avere più assistenza ma centinaia di famiglie continuavano a morire di fame. Il contesto non poteva essere più fertile per favorire il fenomeno del brigantaggio. Ne è testimonianza il racconto in versi, raccolto dalla memoria orale da Salvatore Salomone Marino, Li sbannuti di lu voscu di Partinicu.[3] Dalle analisi storiche dell’insigne antropologo borgettano, si evince che in tutto questo periodo affiora un mondo mitico, il mondo dei sogni, dell’immaginario collettivo. Affiora attraverso i fatti che si narrano sulle avventure che accadono nel bosco e altre storie fantastiche. Ma non sono quelle sulla baronessa di Carini, legate più al mondo del baronaggio, agli amori salottieri, alle abitudini dell’aristocrazia. Sono storie rovesciate, dei sanculotti della terra.

In questo periodo comincia anche il triste fenomeno della ruota. Famiglie diseredate e colpite dall’indigenza abbandonavano i neonati davanti a una struttura girevole che si trovava nei conventi, e che consentiva l’entrata in istituto e l’assistenza agli esposti, cioè i consegnati alla ruota. Attraverso le ruote delle opere pie o delle istituzioni conventuali questi bambini venivano affidati alla pietà delle istituzioni caritatevoli.

Le politiche di assistenza del governo spagnolo prima, attente solo all’esercizio della mera carità, e borbonico dopo, aiutarono in qualche modo le opere pie nel sostentamento di queste creature abbandonate. Legate a processi di espulsione dalla società, raggiungevano lo scopo di provvedere a un certo controllo sociale.

L’annata agraria condizionava l’esistenza delle famiglie. I registri parrocchiali mostrano le costanti delle nascite in certi periodi. Ma i cicli delle nascite e delle morti erano condizionati anche dalla stagionalità dei rapporti di lavoro. A causa della mancanza di vie di comunicazione (le strade verranno costruite alla fine del 700), i contadini dovevano stare fuori intere stagioni. Il trasporto dei prodotti avveniva in condizioni di forte disagio a dorso di mulo. I datori di lavoro erano i gabelloti o i signori che avevano svariate salme di terra in enfiteusi date in consegna ai contadini (giornalieri, mesalori, annalori) che producevano forza lavoro. Essi possedevano altri feudi sparsi per la Sicilia e Partinico rappresentava una specie di ‘arrotondamento’ per i loro interessi. La forza lavoro era portata alle estreme conseguenze di sopportazione e anche il lavoro minorile era molto intenso. Dai registri parrocchiali risulta che c’era un considerevole numero di giovani trovati morti nelle campagne. Era consuetudine che i bambini venissero iniziati a lavori faticosi e inumani e quindi anche la mortalità infantile a causa delle malattie provocate dalla lunga permanenza in condizioni proibitive, restava piuttosto alta.

Non mancavano poi i morti a scupettate: ovvero vittime di delitti, per lo più d’onore.

Nel periodo di crisi con molti morti la popolazione reagiva in modo fisiologico con un numero crescente di nascite. Il 60% dei nati moriva entro il primo anno di vita: nel ‘600 l’età media dei maschi era di 36 anni, quella delle donne un anno in più.

 

Vita e morte

Partinico non ebbe mai un baronaggio locale: i baroni a cui sono intitolate le strade non erano del luogo ma venivano da fuori per accaparrarsi pezzi di latifondo. Non esisteva una borghesia né una classe imprenditoriale degne di questo nome. Partinico è sempre stato un territorio sfruttato da gente venuta da fuori per arrotondare le proprie rendite, sottovalutato come un’area marginale. Furono gli stessi monaci a consegnarlo alla gestione di tanti piccoli signorotti.

Quando il grande feudo si frammentò venne a mancare un ceto borghese imprenditoriale capace di organizzare la piccola e media proprietà in una proprietà produttiva più ampia, capace di essere competitiva. Questo ceto, che pure aveva dato buona prova di sé (si pensi, ad esempio, all’imprenditore vinicolo Giovan Domenico Cicala) non riuscì a diventare ceto sociale credibile, e la stessa popolazione del territorio rimase secolarmente preda delle decisioni extraterritoriali, dei potentati della capitale.

Nel ‘600 e nel ‘700 la storia fu scandita dalle epidemie di peste e dal colera. Per oltre due secoli furono queste malattie le vere protagoniste della storia non solo locale. La popolazione venne falcidiata, e l’assetto di interi nuclei familiari fu sconvolto. La popolazione cambiò usi e costumi. Ad esempio si evidenziarono nuove forme di matrimonio: i vedovi si risposavano con le vedove; diminuiva il numero dei matrimoni tra celibi e nubili, aumentavano quelli tra celibi e vedove ( e viceversa tra vedovi e nubili); avvenivano nuovi assestamenti economici. Insomma le frequenti epidemie ricomponevano famiglie e proprietà, concentrando la ricchezza. Sono i secoli delle masse diseredate che lottano per sopravvivere e far continuare ad esistere il paese. E di fatto, tra il ‘500 e il ‘700 avviene questo straordinario fenomeno: più imperversa la morte più aumentano i tassi di natalità. Maltusianamente la comunità reagisce per affermare il suo diritto ad esistere, ad avere una sua identità.

 

Le mani sulla città: baroni e mafiosi

Il governo spagnolo aveva influito molto sulla realtà del nostro paese, tant’è che faceva la volontà dei baroni di Palermo i quali consideravano Partinico quinto quartiere, beneficiando così dell’esonero dalle tasse, pagate solo dai ceti produttivi, dalla manodopera e dai piccoli proprietari stagionali. Un sistema che perdurò fino all’Ottocento, quando con l’avvio dell’impresa agricola si cambiò registro. Per tutto il Seicento a Partinico imperava un ceto aristocratico che faceva il bello e il cattivo tempo: marchesi e conti, baroni e principi sceglievano i terreni che preferivano, pagavano il canone enfiteutico e senza lavorare, sfruttando la fatica dei contadini, si impadronivano di tutta la produzione.

La questione del baronaggio, del feudo, del sistema produttivo fondato sulla rendita parassitaria, ha molto a che fare con la nascita del fenomeno mafioso che si manifesta nell’Ottocento, anche se esistono tracce documentali che fanno risalire al Seicento importanti episodi di gravi malversazioni. Si narra ad esempio di tale Stefano D’Avantaggio alias La Blasa o La Blanca che aveva in gestione il fondaco, una specie di mercato dove si vendevano prodotti alimentari (formaggi, vino, prodotti agricoli). Egli imponeva prezzi arbitrari contrari alle norme vigenti della meta, ovvero una sorta di listino prezzi fissato dai signori palermitani che si riunivano una volta al mese nella Chiesa di San Leonardo. Qui si stabilivano anche le tasse sugli animali; il costo della vita. Amministravano naturalmente a proprio uso e consumo. Si capisce bene come la classe dei contadini fosse la più diseredata e quella più esposta alle tragedie del declino economico del paese. Tra il 1620 e il 1650 scoppiarono carestie ed epidemie che decimarono la popolazione, e fu necessario costruire nuove chiese e cimiteri per dare i sacramenti ai moribondi e sepoltura ai morti. Risale a quel periodo l’edificazione delle chiese degli Agonizzanti e della Casa Santa, che si aggiungevano così alla prima chiesa destinata ad opera pia, quale fu sul finire del ‘500 la chiesa di San Leonardo cui era annessa la Compagnia del Santissimo Sacramento. Si affaccia su questo scenario di pietà e di aiuto caritatevole per i poveri, gli ammalati, gli abbandonati, il ceto dei galantuomini: una categoria di personaggi che, a mano a mano che si vanno definendo fino all’Ottocento, danno un’impronta particolare alla gestione degli affari interni del paese. Alla fine il loro modello è definito dai galantuomini spagnoli. In Spagna erano diventati famosi i “Casini”, luoghi tipicamente arabi dove si riuniva l’élite della borghesia con lo scopo di discutere sulle problematiche del tempo e quindi prendere delle importanti decisioni. Questi luoghi servivano anche come intrattenimento per uomini e donne, con una vasta disponibilità di stanze appartate destinate a ogni tipo di passatempo. In assenza di un municipio i ‘casini’ divennero pertanto i luoghi dove si prendevano le decisioni sulla comunità.

 

Lo sviluppo urbano nel ‘700

Nel ‘700 Partinico mantiene un buono sviluppo della natalità, mentre si abbassa notevolmente il tasso di mortalità infantile. Si hanno effetti positivi di cui si ha prova anche nell’espansione urbanistica. Di contro scompaiono i ceppi familiari meno resistenti che non avevano retto agli impatti epidemici precedenti. Gli altri diventano stabili. I registri parrocchiali (fonti attendibili perché venivano controllati severamente dai vescovi) ce ne dànno conferma.

Il Villabianca, alla fine del ‘700, scrive La storia della Sala di Partinico. Era un enfiteuta venuto da Palermo perché la sua famiglia, già dal ‘400, possedeva tanti terreni in enfiteusi in contrada Albachiara. Partinico ebbe così l’onore di avere una sorta di concittadino onorario, certamente ritenuto in grande considerazione a Palermo. Soprattutto da parte degli uomini di penna. Fu considerato uno storico perché scriveva tutto quello che gli capitava sotto il naso, ma come il suo predecessore A.Mongitore, fu una specie cronista. Si limitava a raccontare la quotidianità attraverso le persone con le quali aveva rapporti. Certamente un suo informatore fu il notaio Giuseppe Di Bartolomeo che, quando finì di scrivere la sua storia di Partinico, nel 1805, non sapeva che l’illustre blasonato ne stava scrivendo una analoga dagli anni precedenti. Il marchese utilizzò il Di Bartolomeo, ma questi non ne trasse nessun vantaggio. Stando dunque al Villabianca nel ‘700 avviene un forte sviluppo. L’abate Barlotta perde l’orientamento dei confini dei vari fondi concessi e cerca di delineare con maggiore precisione le sue proprietà. Dopo avere constatato che gli enfiteuti avevano modificato l’economia agricola con secolari impianti di vigneti, uliveti, frutteti, entra nell’ordine di idee di rivedere le sue rendite, i canoni annuali, e impegna i suoi agrimensori nelle cordiazioni. Vuole sapere soprattutto quali sono le reali dimensioni dei fondi e modificare le imposte a lui dovute. E’ una decisione importante, perché dimostra che l’abate non aveva proprio alcun interesse allo sviluppo e non vedeva pertanto il motivo per cui dovesse tener conto delle trasformazioni agrarie avvenute.

In Sicilia il vigneto nasce in due aree: quella di Partinico e quella dell’Etna, entrambe risalenti al modello spagnolo dei tipici impianti mediterranei ad alberello. Ora gli abati non avevano fatto nessuno sforzo per le trasformazioni agrarie. Anche l’uliveto era stato piantato dai vari enfiteuti che avevano dato il nome alle nostre contrade. Essi erano di provenienza palermitana e avevano trovato nel nostro territorio un arrotondamento dei loro più vasti interessi. A parte il barone F. Ramo altre contrade presero il nome dei loro proprietari, come quelle della principessa Cesarò e di Valguarnera, una delle contrade più sviluppate di Partinico assieme a quelle di S. Caterina, Mirto, Ragali, che già dal 1500 avevano avuto nuclei abitativi precedenti lo stesso insediamento urbano di Partinico.

Il paese nasce come sistema che lentamente si espande dentro l’area boschiva e comincia ad aggregare nuclei abitativi finchè, alla fine del ‘700, arriva a novemila abitanti. Si era avuta, dunque, lungo due secoli un’espansione demografica e urbanistica imponente fondata sul sistema produttivo del vigneto e dell’uliveto. La popolazione aveva reagito agli impatti epidemici, con una poderosa spinta alla vita.

Nel 1798 venne a Partinico il cavaliere Felice Lioy, amministratore della Real Commenda della Magione per constatare e verificare il modo con cui si usava vinificare. Visitò le case dei contadini e dei burgisi ed elencò, come leggiamo nei suoi rapporti scritti, una serie d’inconvenienti che pregiudicavano una buona vinificazione. Constatò le pessime condizioni igieniche in cui avveniva la produzione o si svolgeva la stessa vita quotidiana delle persone. L’anno successivo, commissionò la costruzione della Cantina Borbonica e vennero redatti altri atti tecnici sulla costruzione di questo importante edificio. La Cantina si collocava al culmine dello sviluppo settecentesco del paese quando la piccola borghesia agraria era sostenuta dalle politiche riformistiche del viceré ‘mangiabaroni’ Caracciolo e dall’intraprendenza borbonica del tempo. La prima vera impresa seria, innovativa, riformistica del territorio è dunque opera dei Borboni. Questo processo diede finalmente alla piccola borghesia lo strumento per potere fare impresa agricola, cosa che non era mai esistita nella storia del nostro paese: dalle sue prime origini fino all’epoca che stiamo trattando. Il Lioy era giunto in Sicilia per cercare nuove forme di sviluppo, spinto dalla politica illuministica del momento. Il mandato reale era chiaro: bisonava alimentare l’economia, perché nella zona c’era una grave situazione di indigenza e mancavano opportunità di lavoro.

Suggerì così al re di fare due operazioni: far nascere il Comune, nominare il sindaco e organizzare in modo illuminato l’amministrazione locale, sostenendo l’impresa pubblica e dando quindi alla borghesia locale la possibilità di trasformarsi in classe dirigente. Dettò, insomma, il modello produttivo su base sperimentale legandolo a una politica di interventi per lo sviluppo.

Si diede quindi il via alla costruzione della Cantina Borbonica, che sarà ultimata nel 1803. Nel contempo si nominò il primo sindaco. L’Ottocento si aprì quindi con nuovi orizzonti e almeno due prospettive: la politicizzazione della borghesia e lo sviluppo imprenditoriale. In questo sforzo il viceré Caramanico, successore del Caracciolo, non deluse totalmente le nuove attese. E forse per questo ebbe delle sorprese che Caracciolo non aveva avuto. Gli aristocratici interessati a mantenere le mani sul paese lo invitarono a cena, e inaugurarono così la lunga stagione dei morti di veneficio. Il Caramanico non pensava che potessero avvelenarlo, era convinto che le sue idee illuministiche potessero essere accettate anche dagli aristocratici locali. Si sbagliava: non ebbe il tempo di capirlo perché a fine cena reclinò la testa e si addormentò per sempre.

 

Vigneti e cantine

Malgrado questo incidente di percorso possiamo considerare che nell’ Ottocento continua la fase espansiva nel nostro Comune. Le ragioni sono tre:

1)  la diminuzione delle ondate di colera e la scomparsa della peste;

2) il miglioramento dell’agricoltura e della situazione igienico-sanitaria;

3) l’impianto di vigneti e uliveti, con una sistematica deforestazione, anche se il bosco aveva costituito una fonte di economia fondamentale di sostentamento. Ora, però, nei vigneti s’intravedeva un reddito e i redditi volevano dire espansione. La Cantina, che esiste tuttora, tra le poche testimonianze monumentali che gridano di non volere morire, funzionò per circa settanta anni, come si trova documentato negli Archivi di Stato nei resoconti relativi alla produzione di vino di uve nere provenienti dalle piantagioni dei feudi di Bosco-Falconeria, Lavatore, Giancaldaia.

La produzione di vino era avvenuta con procedimenti fedeli ai suggerimenti elencati in un testo scritto dal Lioy[4] sulla “manipolazione dei vini”. L’esperienza di questo amministratore è molto importante perché è la dimostrazione di quale interesse avesse il Regno delle due Sicilie per la creazione di un ceto borghese. A le cose non andarono come previsto.

Il vigneto – come abbiamo detto- si era impiantato nel territorio partinicese fin dal 1500, quando ad Alcamo predominava la coltura estensiva. Ma nell’evoluzione del tempo non è un caso che Partinico non abbia saputo trarre frutto dalla sua secolare coltura vitivinicola, mentre nel settore, Alcamo acquisterà un prestigio maggiore. Oggi, come sappiamo, la produzione di vino partinicese non ha un nome doc e può solo essere inclusa nella zona del ‘Bianco d’Alcamo’. In sostanza ai maggiori titoli della cittadina del palermitano non ha fatto riscontro un’adeguata preparazione delle sue classi dirigenti. E qui si pone un interrogativo. Perché questo limite non si è riscontrato ad Alcamo? Perché nonostante sia stata storicamente favorita dal potere pubblico, la borghesia partinicese non è stata in grado di provocare sviluppo? Credo che la linea spartiacque tra le due cittadine sia stata segnata dalle differenti strutture culturali predominanti in questi due importanti medi centri, nel divario sostanziale che si è prodotto tra cultura della mediazione e cultura d’impresa.

Altro dato da tenere in considerazione è l’assenza storica di una cultura associativa. Tra popolazione e gruppi di potere si è sempre registrato un rapporto di soggezione, di sudditanza. A differenza di altri comuni, nella prima metà dell’Ottocento, non esisteva un tessuto organizzativo, anche se già nel Settecento si erano avute alcune forme di aggregazione elitaria. A parte le opere pie, le compagnie e le confraternite, Partinico aveva avuto un’ Accademia degli Agricoltori scientifici, un teatro aperto al pubblico dal marchese di Gran Montagna, e qualche giornale locale. Non esisteva però nessuna forma di associazione dei ceti meno agiati.

 

Malaria

Nelle campagne succedeva quello che per altri versi si registrava nelle miniere di zolfo, rispetto alle quali, però, esisteva una legge che regolamentava l’apertura e la messa in funzione degli impianti di fusione.[5] Ci si sforzava, insomma, da parte dei rappresentanti delle comunità, di difendere gli interessi comuni anche contro le prevaricazioni dei baroni. Lo scontro, ad esempio, tra popolazioni e proprietari di miniere che inquinavano l’atmosfera rendendo l’aria irrespirabile, era costante e durissimo. Attraverso il Magistrato Supremo di Salute pubblica, durante il governo borbonico, anche i medici furono costretti a inviare gli “stati patologici”, che settimanalmente dovevano compilare, indicando il nome dell’ammalato, la malattia di cui soffriva e le terapie che erano state prescritte. I certificati che abbiamo rinvenuto dei medici partinicesi del primo Ottocento ci dànno il quadro della straordinaria diffusione della malaria che, certamente, nel paese, fu presente ab origine. Negli “stati patologici”– dato il loro esiguo numero rinvenuto- i casi rilevati sono pochi, ma il medico del paese, Giuseppe Azzolini, dichiarava che da solo, in un anno era riuscito a trattare ben 1.300 casi in forme associate a molte altre malattie legate tra loro da un rapporto di causa-effetto.[6] La connessione malaria-paludi, nel suo esame eziologico, risulta abbastanza evidente, come pure il radicale rimedio terapeutico che propone (bonifica preventiva). Scrive: “ Tutti i luoghi e tutte le contrade che sono attorniate e si trovano vicino fino a certo segno alle paludi, o stagni, sono tanti focolai di febbri intermittenti, e possiamo, ad arbitrio, farli diventare salubri seccando od estinguendo queste acque stagnanti istesse”. Una riprova dell’utilità di questo intervento ci viene fornita dallo stesso medico che, nei quarant’anni di esercizio della sua professione nel paese, aveva potuto constatare come, a seguito della bonifica delle paludi situate “ immediatamente sopra la città” ad opera di Ferdinando I, l’endemia si fosse progressivamente ridotta. Ma in presenza di una forte persistenza delle paludi [che naturalmente non potevano allora essere concepite come focolai anofeligeni, eziologicamente rilevanti ai fini della patologia], nei primi due decenni dell’Ottocento le febbri intermittenti erano state così frequenti che si poteva tranquillamente affermare che nessuna famiglia era rimasta esclusa, ogni anno, dal male. In simili situazioni, speziali e medici facevano grandi incette di corteccia peruviana, il cui consumo, per un centro come Partinico, veniva calcolato in alcuni quintali.[7] La malaria, dobbiamo anche dire, cambiò gli insediamenti umani sul territorio e farà scomparire, nella prima metà del ‘900, un antico centro come Valguarnera Ragali. Ne è testimonianza un proverbio locale che i più anziani ancora ricordano: Panzuti su’ i malavarnirisi c’assicutaru li santi a panzunati. C’è da dire in ultimo che l’’800 segnò anche un periodo in cui vennero costruite le prime strade che collegheranno Partinico con Borgetto, San Giuseppe Jato, Palermo.

 

Presupposti e contraddizioni risorgimentali

 Tre date hanno contraddistinto questo secolo anche nel nostro territorio: il 1848, il 1860 e il 1893. Tre tappe che hanno accompagnato gli abitanti sconvolgendo la loro esistenza con alterne vicende di illusioni e delusioni.

Il 1848 fu per i borghesi il sogno di una patria, per le classi subalterne, i senza terra, i contadini, la speranza di un futuro migliore. Ne furono travolti anche gli ecclesiastici che sostennero l’insurrezione antiborbonica con una forza tale che ne furono trascinati sacerdoti e monaci.

 

Garibaldi e lo sbarco dei Mille

Intellettuali come Stefano Marino sognarono uno Stato federalista, preti come Vito Ragona, forse meno attenti alle formule, pensarono all’insurrezione, sperimentando dal vivo la centralità delle tattiche di attacco ai borboni. Possiamo dire che il ’48 fu l’antecedente del ’60. Un terremoto mondiale, per la verità. E, come sempre, Partinico ne fu travolta. Gli aristocratici, in crisi irreversibile, non furono in grado di guidarla. I borghesi si erano impadroniti del potere pubblico e l’amministrazione del comune era diventata un pretesto, tra i tanti, dello scontro tribale tra famiglie in vista. E ciascuna famiglia ebbe il suo capo, come nelle antiche tribù dei villaggi. Gli indipendentisti siciliani, pronti a soffiare sul fuoco tutte le volte che c’era da dare addosso allo Stato, avrebbero potuto, giocando la soluzione di tipo borbonico, non accettare il principio della unità nazionale, legandosi alle forze filo-borboniche che avevano favorito col sostegno governativo il prestigio di questi ceti sul territorio e che avevano aiutato la crescita della borghesia.

Probabilmente ci furono valutazioni e aspettative che non potevano essere soddisfatte in senso positivo dal governo borbonico, ci fu un’ansia anche nuova di fare della battaglia risorgimentale un tentativo di sperimentazione, un nuovo modo di essere in un’isola in cui le Mafie agrarie dominavano sul territorio. Il ‘48 fu un primo tentativo di saldare le loro consorterie ai nuovi dominatori che essi stessi avevano aiutato; il ‘60 lo portò a compimento.

Nel 1860 ritroviamo una serie di personaggi che si misero a disposizione di una rivoluzione impossibile. Primi, tra tutti, gli Scalia, i clan filocrispini. Erano monarchici e repubblicani, senza distinzione alcuna. Il loro comune obiettivo era favorire al meglio l’avanzata, da Marsala a Messina, di quel gruppo di ragazzotti che col cilindro in testa e qualche taccuino per gli appunti erano partiti alla volta della Sicilia per fare la rivoluzione. Quasi nessuno di loro conosceva la Sicilia e molti ne avevano un ricordo dai racconti omerici. Ma l’isola era la chiave per la conquista della penisola. Avamposto del Mediterraneo, intrinsecamente decisiva più che per sé per tutto ciò che è fuori da sé. Succederà la stessa cosa con lo sbarco angloamericano del 10 luglio 1943.

La rivoluzione del 1789 aveva condizionato tutta l’Europa ma non la Sicilia, perché qui c’erano condizioni tali che impedivano la penetrazione d’idee nuove. Lo spirito era stato sempre filoinglese, anglosassone, impenetrabile alle idee illuministiche. I movimenti popolari che si erano da sempre registrati nella storia della Sicilia, non erano mai stati autonomi, ma indotti da nobili in lotta tra di loro. La nostra borghesia, d’altra parte, aspirava ad acquisire titoli nobiliari ed era implicito che rifiutasse i principi della rivoluzione francese.

Avrebbe dovuto essere solidale, ma non lo fu perché il suo modello sociale non era dettato dai suoi valori interni, intrinseci. Questo è tipico della Sicilia, non accettare mai la positività dei valori interni al proprio status sociale, proiettarsi fuori da sé, nell’immaginifico sogno di un impossibile status paradisiaco. Ecco perché la vicenda garibaldina non fu per i siciliani una rivoluzione ma un semplice atto conservativo. E Partinico non fa eccezione. Le difficoltà dei ceti subalterni, di quei morti di fame che volevano migliorare un po’ la loro situazione, rimasero invariate. Le corresponsabilità intervenute tra dittatura garibaldina e ceti compromessi con la mafia e la stessa mafia, furono estese. In realtà, con la nascita dello Stato italiano nel 1860 si fondò in Sicilia lo statuto genetico del modo di essere di una logica feudale assunta dai borghesi come struttura culturale. Il suo codice esistenziale era dettatato dalla cultura della mediazione, dal suo non essere ceto produttivo, ma tendenzialmente parassitario.

Molte cose naturalmente si giocarono sul caso, su quello che possiamo chiamare destino. Ad esempio, quando le truppe del generale Landi, entrarono ad Alcamo, non ci fu nessuna reazione da parte degli abitanti. I borbonici ritennero che sarebbe successa la stessa cosa a Partinico e così decisero di attraversare il paese. Sbagliarono i loro calcoli e commisero l’errore di infilarsi nel budello del Corso. I Partinicesi li aspettavano al varco, li presero come in una rete. E fu una vera mattanza. Una carneficina di borboni che non aveva a che fare con la guerra ma col tribalismo, la ferocia e la vigliaccheria. Infierire sui morti non è segno di coraggio, ma di brutalità. Sembravano degli animali su una preda indifesa. Quando arrivarono i garibaldini videro all’ingresso del paese montagne di cadaveri squarciati, sui quali si erano accaniti con scempio. Lo spettacolo era orrendo. Lo stesso Garibaldi non si volle neanche fermare e – ci dice l’Abba – abbassatosi il cappello sugli occhi se ne andò all’altro capo del paese. Questa borghesia che partecipa all’impresa dei Mille è una borghesia inferocita e immatura, esprime un potenziale cannibalico, è potenzialmente autodistruttiva. I contadini passarono da un padrone all’altro e non ebbero la concessione delle terre promesse da Garibaldi. Furono doppiamente delusi. E quando a Bronte protestarono al grido ‘ Viva la libertà ’ furono immediatamente fucilati. I Garibaldini in realtà stavano dalla parte di coloro coi quali si erano accordati e volevano avere il controllo su tutto: dall’economia alla società. Ritroveremo più tardi Garibaldi deluso dalle nuove prospettive nazionali. C’era da aspettarselo perché l’eroe dei due mondi in realtà non fu mai un politico, ma un grande guerrigliero. Quando arrivò in Sicilia trovò la strada spianata, le truppe armate alla men peggio gli si presentavano spontaneamente e si associavano alla spedizione in modo avventuroso dando la sensazione di lottare strenuamente per un grande ideale. Garibaldi non si rese conto che certi nobili, certi personaggi avevano tramato contro di lui. Erano gli amici di Francesco Crispi, il quale, siciliano doc, aveva predisposto i vari municipi a servizio delle imprese garibaldine. Così, quando il generale partì le cose rimasero come prima: i contadini con la disperata illusione della vittoria, i borghesi con un potere forte nelle mani, i nobili in crisi con la certezza che contavano ancora. E molto.

Quando le truppe lasciarono la Sicilia e salparono per la penisola, l’eroe nazionale e dei due mondi portò con sé molte carte riservate sulla sua impresa. Si disse che l’archivista e memorialista che le custodiva in robuste casse, Ippolito Nievo, sprofondò con loro in mare aperto.

 

Ultimo scorcio di secolo

E’ risaputo che le vicende locali sono sempre il riflesso di quelle nazionali, o, più in generale, del mondo. E certamente, in Europa e in Italia, alla fine dell’Ottocento, si sviluppa e consolida, a un livello sociale diffuso, una nuova consapevolezza. Nel 1892 nasce il Partito Socialista, e con esso, in Sicilia, un movimento straordinario, mai esistito prima: i fasci dei lavoratori.[8] L’esigenza di una disciplina del lavoro, di leggi che tutelassero le masse era molto sentita, ma soprattutto era molto sentito il bisogno di dare una organizzazione ai lavoratori fino a quel momento preda dei voleri dei signorotti locali. Così anche a Partinico si cominciò a parlare, per la prima volta, di democrazia, e si ebbero le prime forme di organizzazione sindacale e politica. Il rinnovamento è generale e investe anche la Chiesa. Già l’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, aveva dato ampio risalto alla questione sociale, ai problemi che l’incipiente capitalismo cominciava a porre. Naturalmente non c’erano solo i socialisti; c’erano anche gli anarchici, i radicali e i repubblicani, oltre ai monarchici che avevano il loro zoccolo duro tra la grande massa dei contadini. Il risveglio a Partinico è segnato da giovani studenti universitari come Gioacchino Cannizzo e Nicolò Conti, o da muratori come Stefano Noto, o da ragazzi al seguito dei genitori, immigrati, per motivi di lavoro, come Salvatore Gallo. Grazie a loro i lavoratori cominciano ad avere le prime forme di organizzazione e una base di rivendicazioni.

Il 17 aprile i soci iscritti al fascio erano in tutto 119; la sede si trovava in Corso dei Mille (case Bonura); in atto non vi erano fondi di cassa. Come previsto dallo statuto, ogni socio pagava, per tassa d’ingresso L. 2,50, e l0 centesimi la settimana. Potevano essere ammessi operai apprendisti di età non inferiore ai 15 anni. In merito alle assemblee lo statuto ne prevedeva una al mese in via ordinaria; altre, in via straordinaria, si sarebbero potute tenere tutte le volte che ce ne fosse stato il bisogno, fermo restando che le adunanze potevano essere chieste da un decimo dei soci con preavviso di alcuni giorni.

Una sezione era costituita da almeno dieci operai di ciascuna arte. Gli obiettivi venivano individuati nei seguenti punti:

1) difesa dell’occupazione e del diritto al lavoro;

2) educazione alla difesa dei diritti del lavoratore;

3) lotta contro i nemici del fascio;

4) iniziative di «appoggio» della «concorrenza al capitalista»;

5) «ammissione in seno al fascio delle cooperative di produzione e di consumo».

La stesura dello statuto, che secondo il questore Balabio si doveva attribuire «al Barbato e soci più intelligenti[9], era stata fatta in parte sulla falsariga dello statuto del fascio di Caltanissetta, con diverse variazioni sostanziali su alcuni importanti obiettivi immediati e di prospettiva, che dovevano essere connessi naturalmente al diverso tessuto sociale ed economico locale. Così, mentre a Partinico obiettivi erano l’occupazione, l’educazione del lavoratore, le cooperative; a Caltanissetta il fascio si proponeva l’istituzione delle Camere del Lavoro, la riduzione delle ore lavorative, l’aumento dei salari. A Partinico, il 10 maggio veniva vietata la celebrazione della festa del lavoro da un distaccamento di truppa[10]. Altro pretesto repressivo veniva trovato dal questore. Quindici giorni prima Salvatore Gallo, aveva tenuto nei locali dell’organizzazione una «riunione a porte aperte» senza che ne avesse fatto regolare domanda. Il questore suggeriva così al delegato Giovanni Longo di accertarsi se per tale fatto si potessero riscontrare gli estremi della denuncia. Con queste premesse veniva proibita anche la manifestane che il fascio «diretto dai noti agitatori Gallo, Colnago, Pietro Conti, intimo costui del Barbato testè arrestato» avrebbe voluto realizzare il 18 maggio, anniversario del passaggio dal paese di Giuseppe Garibaldi (figura strumentalmente considerata come quella di un «campione del socialismo»).

Il 14 maggio, qualche giorno dopo le .provocazioni di San Giuseppe, undici militari dell’arma dei carabinieri e due compagnie di bersaglieri che si trovavano ancora a San Giuseppe, impedivano che da Partitico fossero intraprese alcune iniziative a sostegno della lotta nei vicini comuni di Borgetto e Montelepre[11]. Intanto il delegato aveva già preparato il verbale di «denunzia e levata» a carico di Gallo e Conti. Entrambi venivano accusati per i reati previsti dagli articoli 246 e 247, del C.P., per avere il primo in occasione della prima pubblica riunione, «incitando all’odio fra le varie classi sociali, profferito le seguenti parole: -se non basteranno le parole per potere gli operai far valere il loro diritto, sarà necessario impugnare le armi -e per avere il secondo profferito le seguenti parole: -l’ospedale che è stato ieri inaugurato dovrà servire per coloro che lo inaugurarono, dovendo essi un giorno essere feriti dalle nostre palle».[12]

Tra la fine di ottobre e i primi di novembre il quadro dei soci influenti da incriminare o incriminati era già pronto[13]; si poneva il problema, per i dirigenti della provincia, d’intervenire a ogni livello per imporre un giusto orientamento politico ed evitare quanto più possibile il precipitare della stretta repressiva. Il 5 novembre, di mattina, saranno così a Partinico Bosco, Barbato, Verro e Maniscalco (non era certo la prima volta che dirigenti di questo livello si vedevano nel paese; già il 18 luglio, di sera, tremila tra soci e curiosi erano stati a ricevere Bosco alla stazione e la circostanza aveva fatto rilevare ancora una volta la grande attrazione esercitata da questo dirigente sulle masse popolari): saranno presenti a riceverli alla stazione, oltre a quello locale, i fasci (costituiti o in via di costituzione) di Borgetto, Montelepre, Balestrate e Trappeto. Nonostante la questura avesse proibito l’uscita dei gonfaloni. un imponente corteo formatosi tra la stazione ed il paese inneggiava al socialismo. Da Partinico, dove Bosco teneva un discorso socialista d’occasione, la delegazione del C.C. socialista di Palermo, si recava a Montelepre per comporre «alcune scissure» e affidare la presidenza del fascio a Noto. Dopo essere stati accolti con fanfara, musica e fiori, parlavano da un balcone Bosco «sull’importanza del fascio e sulle misure poliziesche, Barbato sul programma socialista, Verro sulle forze dei Fasci e l’importanza dello sciopero agrario, Maniscalco sulla solidarietà internazionale, Noto sulla mistificazione dei borghesi»[14]. Da Montelepre i «mestatori» che avevano fatto propaganda persino durante il pranzo offerto dal fascio locale, si recavano a Borgetto per comporre un altro dissidio, e nominavano presidente, anche qui, il Noto[15].

Tenuto conto di queste iniziative, che sono soltanto esemplificative di un più vasto e operante tessuto organizzativo, c’è da dire che il movimento insurrezionale che scoppierà all’improvviso al di fuori di un qualsiasi schema organizzativo (se si escludono i piani anarchici di Merlino e Malatesta che avevano trovato facile penetrazione nella Sicilia occidentale) e nella confusione, era in realtà molto lontano dalle norme statutarie dei fasci. A Partinico, il 9 dicembre e nei giorni che seguiranno, fino ai primi di gennaio[16], operai e contadini, inneggiando ai Savoia, reclamarono l’abolizione del comune «chiuso»: e il tumulto, privo per la sua stessa natura di prospettiva ricadde in definitiva nelIa trappola di Crispi. Possiamo dire che simili trappole, in futuro, non sono mai più mancate.

[1] Nota Bene: il presente testo è frutto di una mia rielaborazione delle registrazioni effettuate dalla signora Anna Presti Molino durante alcune lezioni di storia locale tenute da me presso la Scuola Media Statale ‘G.B. Grassi Privitera’ di Partinico su invito della locale Università popolare.

[2] Per maggiori approfondimenti sul tema si possono consultare i seguenti studi di Giuseppe Casarrubea: Uomini e terra a Partinico (Palermo, Vittorietti, 1981), I parrocchiani di Partinico e Montelepre (a cura del Centro Studi Nicolò Barbato di Partinico, 1988), Storia di Partinico. Da El Edrisi a Danilo Dolci di prossima pubblicazione.

[3] Cfr. Giuseppe Casarrubea- Giuseppe Cipolla, Quotidiano e immaginario in Sicilia. Burgisi, santi e poveri diavoli nel partinicese, Palermo, Vittorietti, 1984.

[4] E’ riportato per intero in G. Casarrubea, Uomini e terra a Partinico, Palermo, Vittorietti, 1981.

[5] Cfr. G. Casarrubea, Il problema della salute nei Comuni zolfiferi della Sicilia del primo Ottocento, in Università di Palermo, Istituto Gramsci siciliano di Palermo, Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, Il Meridione e le Scienze (secoli XVI-XiX), a cura di Pietro Nastasi, Palermo, 1988, pp. 373-384.

[6] Cfr. Lettera dell’abate G. Azzolini di Partinico al celebre professor dottor Giovanni Pruiti, Palermo, 1940, pp. 6-23.

[7] Cfr. Giuseppe Casarrubea, Assetto territoriale, malattie e paludiamo nella Sicilia del primo Ottocento, in Malattie terapie e istituzioni sanitarie in Sicilia, Centro Italiano di storia sanitaria e ospitaliera (C.I.S.O.), Sicilia, Palermo, 1985, p. 333 e, dello stesso autore Geografia della malaria nella Sicilia del primo Ottocento: aspetti sincronici e diacronici nella storia di una patologia di massa, in Aspetti storici e sociali delle infezioni malariche in Sicilia e in Italia, C.I.S.O., Sicilia, Palermo, 1987, pp. 69-95.

[8] Per maggiori apprendimenti sul fascio di Partinico e su quelli della provincia di Palermo, cfr. G. Casarrubea I fasci contadini e le origini delle sezioni socialiste della provincia di Palermo, Palermo, Flaccovio, 1978.

[9]Cfr., ivi, il questore al procuratore del re, 13 marzo 1893

[10] La festa sarà celebrata ugualmente nei locali dd fascio. Noto parlerà in dialetto a 200 operai, sullo scopo ddla celebrazione. Cfr. Giustizia Sociale, Palermo, Amenta, 13-14 maggio 1893.

Cfr. AS. cit., il col. dei CC. al prefetto, 14 maggio.

[11]Cfr. ibidem. Promotore di queste iniziative sarebbe stato lo studente Pietro Conti, di San Giuseppe, ma domiciliato a Partinico che, prima di diventare socialista, era stato un «noto repubblicano». Cfr. ivi, 16 maggio.

[12] Cfr. ivi, il questore al pref., 14 maggio, n. 2392, fasc. 24 bis

[13]Cfr. ivi, il questore al prefetto, 21 ottobre, n. 5241; GDS, 15-16 nov. 1893; allegato alla lettera del questore del 14 ottobre n. 5209.

[14] Cfr. GDS, 6-7 novembre 1893, p. 2.

[15]Cfr. AS. cit., il questore al pref., 8 novembre, n. 5803. Noto in quei giorni doveva recarsi a Borgetto munito di una lettera del C.C. socialista di Palermo, per invitare i soci «alla fratellanza e alla prudenza».

[16]Cfr. GDS, 9-10 dicembre 1893, p. 2.

 

  • COS’E’ L’OMERTA’?

Pubblicato il 5 marzo 2014           di Giuseppe Casarrubea

Tra i vari elementi che compongono la struttura culturale del mafioso, l’omertà è  il più fondante, esprime un’essenza specifica, una conditio sine qua non. Non si dà, infatti, mafioso senza omertà mentre può essere diffusa la considerazione opposta, che  esista omertà senza che ci sia necessariamente mafia.

C’è una forma di omertà innata nel genere umano che deriva dalla paura di ricevere un danno  irrimediabile dall’esporsi, dalla  denuncia di nomi o fatti, con conseguenze che potrebbero intaccare il quieto vivere di ciascuno. La rottura dell’omertà in genere, implica, un diffuso solidarismo sociale, uno scarso potere di dominio del più forte sul più debole. Per quanto concerne l’Italia, una ricerca di Giorgio Chinnici ha ampiamente dimostrato  come, anche l’omertà abbia costituito uno stereotipo utile a relegare un carattere umano definito a un ambito regionale, (Trasgressioni realizzate, Milano, Unicopli, 1988), quando, al contrario, la Sicilia, in termini di denunce, si colloca al di sopra degli standard medi nazionali, con ciò sfatando una concezione antropologica del siciliano che lo vorrebbe quasi geneticamente predestinato. Non è così e l’allargamento del consenso contro l’imposizione del pizzo e la territorialità delle mafie lo dimostra. Vi sono, tuttavia, elementi peculiari al carattere dell’omertà dei siciliani, che coincidono con quelli propri della cultura mafiosa.

Nel vocabolario siciliano-italiano illustrato di Antonino Traina  omertà è sinonimo di “omineità”,  parola che esprime la “qualità dell’essere uomo”, una modalità del farsi uomo.  Essere uomo significa avere molta abilità, per cui si dice: – farsi uomo nel senso  di “diventare uomo di conto”, e “fare l’uomo”, nel senso di “fare il forte, l’astuto,  il serio”.

Ma si noti anche come il detto “fare un uomo”, stia a significare “mettere alcuno in sua vece”, o assumere qualcuno che faccia un lavoro subalterno. Una sorta di derivazione di sè stesso: l’altro fa quello che “l’uomo” non vuole o non riesce a fare, mettendo qualcuno al posto suo.

L’omertà è un intreccio complesso, di complicità, di giochi  psicologici e materiali di dominio e di soggezione, di forme della centralità maschilista, con risvolti particolarmente significativi per quanto concerne  la supremazia del ruolo maschile,  come starebbe a dimostrare lo stesso  mondo proverbiale ( “dda casa chi nun cc’è omu nun havi nnomu” – nella casa in cui  non c’è un uomo non c’è un nome;  “l’omu ‘n vista a la donna sempri ammagghia”/ la donna in vista all’omu si travagghia” – l’uomo al cospetto della donna si  lega a maglia, la donna al cospetto dell’uomo si dà da fare-; “genti assai ed  omini picca” – molta gente e pochi veri uomini- “ogni bbeni da l’omu veni” – ogni bene viene dall’uomo ).

Va  sottolineato che nel sistema culturale mafioso, l’omertà non è una qualità effettuale, ma un elemento strutturale causale, capace  di determinare conseguenze e di esprimere una condizione valoriale intrinseca.

Pertanto la definizione che dànno alcuni dizionari della parola  deve essere letta con la suddetta avvertenza. Si veda, ad esempio, il Garzanti che scrive: “forma di solidarietà propria della malavita, per cui si mantiene il silenzio su un delitto o sulle sue circostanze in modo da ostacolare la ricerca e la punizione del colpevole. Nel senso estensivo ha anche il senso di solidarietà, silenzio su mancanze, colpe altrui per salvaguardare propri interessi, per timore di conseguenze negative o altro/. Forse forma napoletana di “umilità”, per indicare sottomissione alle regole della camorra”.

Definizioni tutte che vanno intese come risultati di processi di cui l’omertà non è una manifestazione evidente, ma la causa,  la struttura che li rende necessari. Il problema si lega, cioè, al processo dinamico di formazione della personalità del mafioso, lungo il percorso che va dal terreno dell’affinità dentro i limiti della generica cultura mafiosa, a quello della significazione e dell’affiliazione, segnando il salto di qualità da una condizione nella quale l’individuo è ancora libero di crescere e formarsi in altro modo, ad una fase nella quale, al contrario, egli compie una scelta decisiva, consegnandosi al modello della cultura mafiosa.

Giuseppe Casarrubea

 

 

  • BREVE STORIA DEI SERVIZI SEGRETI ITALIANI

Pubblicato il 17 marzo 2015         di Giuseppe Casarrubea

Giuseppe De Lutiis:  “Non esistono i servizi segreti deviati, ma le deviazioni dei servizi segreti”

I servizi segreti dell’Italia democratica nascono ufficialmente il 1 settembre 1949, sulle ceneri – ma mantenendo in pieno uomini e strutture – del vecchio Sim, il servizio d’informazione militare, nato durante il regime fascista: il nome è Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate).

Già nella costituzione del Sifar c’è qualcosa di anomalo: nessun dibattito parlamentare, ma solo una circolare interna, firmata dall’allora ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, repubblicano.

Dalla nascita della Repubblica, l’Italia ha atteso più di tre anni, quindi, per dar vita all’organismo che dovrebbe tutelarne la sicurezza, il tempo necessario a “scaricare” le sinistre dal governo e ad aderire al Patto Atlantico.

Il primo direttore del Sifar è il generale di brigata Giovanni Carlo Del Re che opera sotto l’esplicita supervisione dall’emissario della CIA in Italia, Carmel Offie.

In carica per tre anni, Del Re viene sostituito nel 1951 dal gen. Umberto Broccoli – l’uomo che – almeno sulla carta – darà l’avvio a Gladio, sostituito, neppure un anno e mezzo dopo, dal gen. Ettore Musco.

Anche Musco, che nel 1947 aveva formato l’Ail (Armata Italiana per la Libertà) – una formazione diretta da militari, sostenuta economicamente e militarmente dai servizi segreti americani, incaricata di vigilare su un’eventuale insurrezione comunista – fu uomo di stretta osservanza CIA e proprio sotto il controllo americano portò a termine l’acquisto dei terreni di Capo Marrargiu, in Sardegna, dove sarebbe sorta la base di Gladio.

 

Gli anni di De Lorenzo

Ma è con l’avvento ai vertici del Sifar del gen. Giovanni De Lorenzo che i servizi segreti italiani si trasformano e cominciano a giocare un ruolo preponderante sulla scena politica italiana. La nomina di De Lorenzo non è casuale: a caldeggiarla, con insistenza, è l’ambasciatrice degli Usa Claire Booth Luce, ma il generale è uomo molto gradito anche alle sinistre che per anni equivocheranno sui suoi meriti resistenziali.

De Lorenzo assume le redini del Sifar nel gennaio del 1956. Resterà in carica fino all’ottobre del 1962: quasi sette anni filati, fatto mai accaduto, neppure in seguito, nella storia dei servizi segreti italiani. E’ sotto la gestione De Lorenzo che l’Italia sottoscriverà il piano, redatto dalla CIA, denominato “Demagnetize” il cui assunto è:

“La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo”.

Gli anni di De Lorenzo al Sifar sono gli anni delle schedature di massa degli italiani: verranno raccolti oltre 157 mila fascicoli, molti dei quali abusivi e falsi, in gran parte del tutto superflui per la sicurezza, ma utili strumenti di pressione e di ricatto.

Nominato sul finire del 1962 comandante generale dell’Arma dei carabinieri e quindi costretto a lasciare la guida del servizio segreto, De Lorenzo riuscì comunque a mantenere il controllo del Sifar, facendo in modo che al suo posto venisse nominato un suo fedelissimo, Egidio Viggiani e che i posti chiave del servizio stesso fossero occupati da suoi uomini di fiducia: Giovanni Allavena – responsabile, contemporaneamente, dell’ufficio D (informazioni) e del Ccs (controspionaggio) ed in seguito egli stesso ai vertici del Sifar– e Luigi Tagliamonte che assumerà il doppio (e incompatibile) incarico di responsabile dell’amministrazione del Sifar e capo dell’ufficio programmazione e bilancio dell’Arma.

E’ con De Lorenzo ai vertici dei carabinieri che si acuisce la tensione in Alto Adige, una regione attraversata all’epoca da una forte vena irredentista filo-austriaca e, nel luglio del 1964, si ode il famoso “rumor di sciabole” di cui parlò l’allora segretario socialista Pietro Nenni, allorché la formazione del secondo governo di centro-sinistra, guidato da Aldo Moro, si realizzò sotto la minaccia, più o meno velata, di un colpo di stato: il Piano Solo.

 

Nasce il Sid

Anche se lo scandalo delle schedature del Sifar e del Piano Solo verranno alla luce solo tre anni dopo, nel 1967, grazie ad una campagna di stampa del settimanale L’Espresso, condotta dai giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, già nel 1965 il Sifar viene sciolto.

E’ uno scioglimento solo di facciata, l’ennesimo: con un decreto del Presidente della Repubblica, il 18 novembre 1965, nasce il Sid (Servizio Informazioni Difesa) che del vecchio servizio continuerà a mantenere uomini e strutture.

Il comando del Sid viene affidato all’amm. Eugenio Henke, genovese, molto vicino al ministro dell’Interno dell’epoca Paolo Emilio Taviani, democristiano.

Sotto la gestione Henke – che resterà in carica fino al 1970 – prenderà l’avvio la strategia della tensione che avrà come primo, tragico, risultato la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969).

Henke lascia il Sid il 18 ottobre 1970 per essere sostituito dal gen. Vito Miceli che già dal 1969 guidava il Sios (il servizio informazioni) dell’Esercito. Non trascorrono neppure due mesi dal nuovo cambio della guardia ai vertici dei servizi segreti italiani, che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 un gruppo di neofascisti, capeggiati dal “principe nero” Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas, mette in atto un ancor oggi misterioso tentativo di colpo di stato, nome in codice “Tora, Tora”, passato alla cronaca come il Golpe Borghese.

E’ noto che il tentativo di colpo di stato fallì, o meglio aveva al suo interno forze che ne avevano preventivato il fallimento. Di quel golpe che sapeva molto era proprio il neo capo del Sid, il gen. Vito Miceli che nel sottile gioco delle alleanze politiche era legatissimo ad Aldo Moro e nemico giurato di una altro potente democristiano: Giulio Andreotti.

Miceli di quel tentativo di golpe tacque: in primis con la magistratura. Quando nel 1975 l’inchiesta giudiziaria sul Golpe Borghese arriverà alla sua stretta finale, Miceli avrà già lasciato il servizio, travolto da una serie di incriminazioni che porteranno al suo arresto per altri fatti ancora oggi non del tutto chiariti, come la creazione della Rosa dei Venti, un’altra struttura militare para-golpista e lo scontro durissimo che lo opporrà al capo dell’ufficio D, un fedelissimo di Andreotti, il gen. Gianadelio Maletti. Gli anni della gestione Miceli sono gli anni dello stragismo in Italia: da Peteano, alla strage alla Questura di Milano, da Brescia all’Italicus.

Come era già accaduto a De Lorenzo, anche Miceli finirà in parlamento: eletto, anche lui, nelle file del Msi-Dn di Giorgio Almirante, così come anni dopo succederà ad un altro capo dei servizi segreti, il gen. Antonio Ramponi, nelle file di Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini.

 

La riforma dei Servizi Segreti

La prima riforma organica dei servizi segreti – ma anche fino ad oggi l’ultima – risale al 1977. Sempre più vicino all’area di governo, impegnato in una politica improntata al consociativismo, il PCI partecipa direttamente ed in prima persona, attraverso la figura del sen. Ugo Pecchioli, alla riforma.

Per la prima volta viene introdotta una figura di responsabile dell’attività dei servizi segreti di fronte al Parlamento: è il Presidente del Consiglio che si avvale della collaborazione di un consiglio interministeriale, il Cesis che ha anche un compito di coordinamento. Inoltre i servizi devono rispondere di quello che fanno ad un Comitato parlamentare.

Ma un importante novità introdotta dalla riforma dei servizi segreti riguarda lo sdoppiamento dei servizi stessi: al Sismi (Servizio d’Informazioni per la Sicurezza Militare) il compito di occuparsi della sicurezza nei confronti dell’esterno, al Sisde (Servizio d’Informazioni per la Sicurezza Democratica) quello di vigilare all’interno. Con in più un’altra differenza: se il Sismi resta completamente affidato a personale militare, il Sisde diventa una struttura civile, affidata alla polizia che è diventato un corpo smilitarizzato.

Una riforma, quindi, buona nelle intenzioni, ma che negli anni a seguire produrrà soltanto risultati disastrosi, anche perché gli uomini che andranno a far parte del Sismi e del Sisde saranno gli stessi che hanno già fatto parte del Sifar e del Sid e, per quanto riguarda il servizio civile, del disciolto – e famigerato – Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno.

Retto dal 1974 al 1978 dall’amm. Mario Casardi, il Sismi vedrà l’ascesa, nello stesso anno, del gen. Giuseppe Santovito, già stretto collaboratore di De Lorenzo.

Il Sisde, la cui direzione sarebbe dovuta spettare ad Emilio Santillo, già capo dell’Ispettorato per l’antiterrosimo, pur essendo una stuttura non militare finirà proprio ad un militare, generale dei carabinieri Giulio Grassini.

Il primo scandalo in cui incappano i servizi riformati è quello della Loggia P2. I nomi di tutti i vertici dei servizi segreti (Sismi, Sisde ed anche del Cesis, l’organo di coordinamento) sono compresi nella famosa lista del maestro venerabile Licio Gelli, scoperta il 17 marzo 1981 dai magistrati milanesi che indagano su Sindona.

 

Il ruolo dei Servizi segreti nei misteri degli anni Ottanta

E’ questa forse una pagina che non è stata ancora scritta del tutto. Di certo oggi sappiamo che entrambi i servizi segreti sono dentro fino al collo nel caso Moro, i 55 giorni che trascorsero fra il sequestro del presidente della DC da parte di un commando delle Brigate rosse e l’uccisione dell’uomo politico.

Omissioni, inefficienze, tacite connivenze, depistaggi, forse anche qualcosa di più.

Molto, ma molto di più invece nella strage di Bologna dove per depistaggio, con sentenza passato in giudicato, sono stati condannati, assieme a Gelli, alcuni uomini del Sismi, come il gen. Pietro Musumeci e il col. Giuseppe Belmonte. E con loro anche il faccendiere Francesco Pazienza, in seguito imputati anche per aver creato una superstruttura occulta (il c.d. Supersismi) all’interno del servizio segreto militare, sospettato di aver operato in collegamento con elementi della criminalità organizzata.

C’è da aggiungere che uomini del Sismi sono rimasti implicati anche nell’inchiesta sulla strage di Ustica.

Nel 1984 arriva al vertice del Sismi colui che passa per un rinnovatore: è l’amm. Fulvio Martini. Resterà in carica fino al febbraio del 1991 quando, assieme al suo capo di stato maggiore, il gen. Paolo Inzerilli, finirà travolto dalla vicenda di Gladio.

Parallelamente al Sisde si succederanno i prefetti Vincenzo Parisi (1984-1987), che diventerà subito dopo capo della polizia e Riccardo Malpica (1987-1991), che verrà poi condannato per lo scandalo dei fondi neri del Sisde.

Il resto è storia recente. Gli uomini che siederanno ai vertici di Sismi e Sisde nell’ultimo decennio sono, per fortuna del Paese, tutte o quasi figure di scarso rilievo, ma, almeno all’apparenza, tutte dotate di saldo spirito democratico.

I servizi segreti italiani sembrano aver scelto la linea del basso profilo: forse servono a poco o a nulla. Ma almeno non fanno danni.

Anche se – bisogna aggiungere – trattandosi di apparati di sicurezza (sicurezza di chi?) bisogna sempre stare attenti a non pronunciare mai una parola definitiva.

(fonte principale: G. De Lutiis – Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti)